Cuba. William Bavone: «Fidel Castro sarà assolto ma Cuba sta già cambiando»

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a cura della Redazione

La morte di Fidel Castro ha scosso il mondo intero, diviso tra cordoglio e condanna. Il regime politico instaurato dal leader cubano è finito in poche ore al setaccio di osservatori e analisti, ma anche di commentatori improvvisatisi esperti nell’oceano mediatico dei social network. Di certo, i giudizi trancianti – di ogni segno e colore – sono del tutto insufficienti a spiegare la storia di una figura complessa e poliedrica come quella di Castro.
Eroe per qualcuno, dittatore per altri, Fidel Castro ha catalizzato l’attenzione mondiale, facendo di una piccola isola caraibica un palcoscenico costantemente sotto i riflettori della politica internazionale. A chi ricorda i primati nella sanità e nell’istruzione, universalmente riconosciuti, risponde chi denuncia le repressioni, soprattutto nei primi anni del potere, e l’assenza di democrazia nell’isola. Senz’altro, col senno di poi, è molto difficile fare i conti con esperienze così lontane, immerse in epoche e in luoghi tanto diversi dai nostri, dove la democrazia, così come intesa in Europa, era un’eccezione più che la regola e veniva costantemente soffocata da guerre, golpe e attività criminali.
Per saperne di più, abbiamo rivolto alcune domande a William Bavone, esperto di America Latina e membro del nostro Comitato Scientifico di Redazione.
Oggi, Cuba sta cambiando. La zona economica speciale di Mariel, inaugurata tre anni fa, è emblema di un percorso di transizione verso un sistema socialista di mercato. Sulla scia di quanto fatto in passato da Cina e Vietnam, anche L’Avana si appresta ad affrontare un piano di riforme che punta a fare dell’isola un Paese meno centralizzato, più snello, più dinamico e più avanzato. Nel 2018, infatti, verosimilmente Raúl Castro lascerà la presidenza assunta nel 2008, consegnando la leadership a Miguel Díaz-Canel, uomo di partito ma anche ingegnere elettronico. Forse non a caso.


Ciao William. In questi giorni, nei social network di quasi tutto il globo si è scatenata la solita “rissa virtuale” politica, tra detrattori ed apologeti. Al di là dei giudizi trancianti, qual è effettivamente l’eredità politica di Fidel Castro?

Purtroppo il web regala, oltre all’immediatezza della fruizione di news e informazioni, anche una massa critica di esemplificazioni, ambiguità e disinformazioni capaci di distorcere in modo grottesco ogni realtà. Proprio l’immediatezza di una disponibilità “intellettuale” illimitata finisce con il legittimare erroneamente chiunque cerchi di farsi “portatore sano di verità” sul web. Molti diventano tuttologi con un click e lo studio critico e approfondito resta un lavoro di pochi che tende a perdersi nell’etere. Fatta questa opportuna premessa, Fidel Castro muore all’età di novanta anni ma la sua eredità è da ricercarsi nella sua storia politica sino al 2008, quando ha inizio un percorso politico-economico contraddistinto dalla visione di Raúl Castro.
Tralasciando ogni ideologia di sorta, va dato atto che Fidel Castro ha dimostrato al mondo intero l’inossidabilità della fermezza politica nonostante tutto e tutti e ben oltre il romanticismo prettamente intellettuale. La storia della rivoluzione è in realtà costellata di decisioni pragmatiche suggerite da un’unica necessità imperativa ovvero resistere al colonialismo politico ed economico sia nei confronti di Washington sia nei confronti di Mosca.
La rivoluzione nasce difatti come contrasto della deriva dell’Isola e solo in seguito assume l’impopolare decisione di farsi regime socialista, per evitare un ripristino della condizione di protettorato. La riluttanza statunitense a perdere il controllo su un territorio così vicino alle proprie coste in piena Guerra Fredda ha portato la Casa Bianca ad optare per un crescente antagonismo, contrassegnato da un duro embargo commerciale.
Fidel Castro intendeva evitare una tale pressione attraverso il dialogo aperto con il proprio vicino, ma nei fatti la situazione ha costretto Cuba a cercare alternative internazionali per non soccombere. Ovvio, quindi, cercare asilo nell’ideologia della parte contrapposta a Washington ed ecco come la rivoluzione diventa comunista. Ma anche qui si delinea un comunismo prettamente cubano che con il tempo si distingue dal Cremlino fino a scindersi dalla condivisione strategica internazionale. Con la Crisi dei Missili del 1962 e la sua soluzione diplomatica, il sodalizio L’Avana-Mosca si incrina e l’economia di Cuba rischia un nuovo isolamento. In questo frangente, il regime si irrigidisce ancora di più per evitare il fallimento politico. La fine della Guerra Fredda e l’estensione della sfera d’influenza degli Stati Uniti acutizzano le condizioni critiche.
Tuttavia, al di là di fisiologiche tensioni durante le amministrazioni George H.W. Bush (1989-1992) e Bill Clinton (1993-2000), George W. Bush (2001-2008) ha sostanzialmente trascurato la politica estera in Sudamerica, privilegiando l’interventismo in Medio Oriente, tanto da permettere all’intero continente latino di vivere una ricostruzione politica di segno socialista quasi totale. L’indipendentismo ideologico comune alle diverse esperienze ha così riscritto anche la storia di Cuba, non più isolata ma parte di un sistema regionale. Eccoci, quindi, ad un nuovo pragmatismo isolano che traduce il suo comunismo in un socialismo gradualista di fatto, affidato nel 2008 a Raúl Castro, l’uomo delle riforme necessarie a Cuba per integrarsi nel nuovo circuito internazionale e superare l’embargo.
In definitiva, Fidel Castro lascia in eredità il temperamento di un popolo che si contraddistingue fermamente come cubano nonostante l’embargo. Un concetto non scontato e non assimilabile al definirsi “italiano” o “francese” a seconda della propria nazionalità: senza rivoluzione, Cuba rischiava di trasformarsi nell’ennesima stella della bandiera statunitense e solo l’ostinazione di un uomo carismatico come Fidel Castro lo ha impedito.


I giudizi della nuova destra occidentale hanno riservato parole molte dure nei confronti di Castro: da Trump a Marion Le Pen, da Farage a Salvini. Più prudenti ma generalmente critici gli altri leader europei, con qualche eccezione tra socialisti e popolari, mentre frasi di cordoglio e ammirazione sono arrivate, oltre che dal presidente messicano Enrique Peña Nieto e dal Sudamerica, anche da Vladimir Putin, Xi Jinping e Narendra Modi. Come interpreti questa suddivisione quasi geografica delle opinioni su Fidel?

La rivoluzione in sé resta sempre un atto di guerra fatto di morti, omicidi e campi di prigionia. Non esistono rivoluzioni pacifiche capaci di sovvertire un sistema opprimente come quello che vigeva a Cuba negli anni Cinquanta. Pertanto, a seconda delle idee politiche di chi giudica, ogni rivoluzione o guerra viene condannata o giustificata. Non si sottrae a questa ambivalenza il caso della rivoluzione cubana. La gran parte dei paesi latinoamericani non può che esprimere cordoglio all’isola caraibica visto che Fidel Castro rappresenta per loro l’emblema della latinoamericanità, studiato nei libri di storia. Cuba, nel bene e nel male, resta l’emblema della possibilità di indipendenza politica ed economica da quelli che sono i rapporti asimmetrici di forza esistenti in ambito internazionale.
In Europa, si cerca invece di essere populisti e quindi si clona il pensiero per lo più di chi rappresenta la “moda” politica del momento. I moderati, invece, salutano Fidel con tiepidi messaggi per non irritare nessuno all’interno di uno scacchiere geopolitico in piena trasformazione. In realtà, solo chi è immune ad ogni influenza strategica esterna, come Trump, Putin o Xi Jinping, si esprime liberamente. Va detto che fra i “pensieri puri” non si può dare un giudizio assoluto perché molto è immagine dell’ideologia perseguita, tuttavia è utile fare una precisazione non banale. Per Cuba, la definizione di regime è probabilmente più calzante di quella di dittatura, spesso pensata come sinonimo. Le dittature privano il popolo di ogni sostanziale libertà e concedono all’esercito il libero arbitrio nel definire chi vive e chi muore in un Paese. Una dittatura si arma prevalentemente per difendersi dal suo stesso popolo, cosa ben diversa da quanto è avvenuto a Cuba.
Soprattutto nella prima parte del suo percorso storico si riscontrava una forte intolleranza verso l’opposizione politica ed il discutibile allestimento di campi per la detenzione di chi era considerato antagonista della rivoluzione. Tuttavia, non siamo lontani da un modus operandi messo in essere nei più democratici Stati Uniti, dove la CIA si occupava del lavoro sporco nel processo di inquisizione nei confronti del proliferare dell’ideologia comunista o socialista. Nessuno ha mai parlato di dittatura o regime all’interno degli Stati Uniti, ma di fatto si dimostra come questa definizione non è che una dicitura di comodo per avvalorare la propria posizione ideologica.

Alla notizia della morte di Fidel Castro, non poche testate nel mondo hanno parlato di “fine di un’epoca”. Eppure, il líder maximo si era fatto da parte già da anni lasciando il potere in mano al fratello Raúl, impegnato in una serie di piani di riforma politica ed economica. Qual è la situazione a Cuba oggi e quali sono i fattori di continuità e discontinuità tra Fidel e Raúl?

Come ho detto, l’epoca politica castrista si era conclusa con il passaggio della leadership al fratello Raúl Castro nel 2008 ed oggi il mondo si divide tra chi piange, è indifferente o esulta per la morte di Fidel. Il presente, invece, ci consegna un Paese coinvolto in una lenta e strutturata riforma economica e politica, attuata da Raúl Castro al fine di modernizzare la rivoluzione e adattarla al nuovo contesto internazionale. Le riforme interne cercano anzitutto di ridimensionare il controllo statale sull’economia, favorendo lo sviluppo delle imprese cooperative. Allo stesso modo si cerca di ridurre il pubblico impiego, senza trascurare quelli che oggi sono i pilastri di un Paese ritenuto ancora povero: istruzione e sanità. Se l’accesso all’istruzione universale e gratuito solitamente non emoziona gli analisti internazionali, la sanità suscita molto più che semplice curiosità visto che i medici cubani costituiscono la tipologia di risorse umane maggiormente “esportata”.
Il nuovo piano politico di Raúl Castro guarda anche all’esterno e riposiziona l’isola nel nuovo contesto internazionale. Se da un lato l’embargo continua a penalizzare l’economia nazionale, l’emersione di nuovi attori globali permette a L’Avana di cucire nuove alleanze prima inimmaginabili: Cina, Russia e Brasile investono sull’isola, mentre il Venezuela fornisce petrolio a prezzi agevolati e molti Paesi hanno condonato gran parte del credito esigibile nei confronti di Cuba. Insomma, sembrano esserci tutte le condizioni per riabilitare l’isola agli occhi della comunità internazionale, nonostante il blocco commerciale e finanziario imposto da Washington da oltre sessanta anni.
Con la morte di Fidel Castro, la domanda “Che ne sarà di Cuba?” arriva in ritardo sul passaggio di consegne del 2008 e in anticipo sulla svolta prevista nel 2018. Raúl Castro ha infatti indicato per quell’anno la fine del suo mandato. Salvo sorprese, il nome del futuro è quello di Miguel Díaz-Canel, ingegnere elettronico già a capo del Ministero dell’Istruzione Superiore.

Negli ultimi mesi della sua presidenza, Obama si era recato a Cuba per uno storico incontro con Raúl Castro a L’Avana. Dopo decenni di embargo, accuse, tensioni e incidenti diplomatici, si è parlato di svolta dei rapporti bilaterali verso una normalizzazione attesa da molti. Quali passi in avanti sono stati fatti? Perché Fidel non incontrò Obama?

La cosiddetta normalizzazione dei rapporti tra Cuba e Stati Uniti resta ad oggi una dichiarazione di intenti e poco altro. Le parti si sono incontrate, hanno effettuato anche uno scambio di prigionieri politici, ma nei fatti nulla è ancora realmente cambiato. L’embargo continua a gravare sull’economia cubana. C’è l’intenzione di tornare a fare affari ma, al momento, Cuba ancora non può accedere liberamente al credito internazionale. Le banche si assumono un grande rischio quando accettano di erogare credito all’isola e questo si traduce in un innalzamento dei tassi d’interesse. L’Avana, dal canto suo, non può fare a meno di questi flussi finanziari per interagire nel commercio internazionale, a sua volta debilitato da un sistema sanzionatorio nei confronti dei vettori che accettano di trasportare merce cubana. Questi, infatti, per assumersi tale rischio richiedono un premio molto alto influendo negativamente sul prezzo finale, che perde di fatto competitività sui mercati esteri. Va poi aggiunto quanto l’isola perde, in termini economici, dall’assenza di interazione diretta col mercato statunitense, vastissimo e geograficamente vicino, dove potrebbe riversarsi l’export cubano e dal quale potrebbero provenire flussi turistici numericamente significativi.
Per quanto concerne il mancato incontro tra Fidel Castro e Obama, possiamo dare due chiavi di lettura. Innanzitutto, l’incontro non aveva alcun valore politico reale in quanto la vera figura di riferimento era ed è Raúl Castro. In secondo luogo, una visita privata a Fidel Castro avrebbe permesso ad Obama di attivare potenzialmente una propaganda di attesa della sua scomparsa. L’inquilino uscente della Casa Bianca avrebbe cioè incontrato un leader in pensione, ormai anziano, affaticato dal peso degli anni e ne avrebbe potuto fortemente sminuire il carisma.
Se l’embargo dovesse finire, sarebbe un risultato ambivalente per Cuba, che da un lato vincerebbe un braccio di ferro storico, aprendosi varchi commerciali fondamentali, ma che a quel punto spegnerebbe il sensazionalismo ideologico che l’ha resa famosa nel mondo, facendo dell’isola uno dei tanti Paesi alla ricerca di una propria collocazione sullo scacchiere internazionale. Per gli Stati Uniti invece verrebbe meno il vivo esempio della resistenza al suo strapotere geopolitico mondiale.

Le aperture verso l’estero di Fidel Castro furono molte. Soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, L’Avana avviò una fitta trama diplomatica che a quelli tradizionali ideologici aggiunse nuovi interlocutori nel mondo, tra cui persino il Vaticano, riuscendo a dialogare con ben tre papi diversi. Era soltanto affannosa ricerca di legittimazione internazionale o c’era in ballo un progetto politico-economico innovativo?

Negli anni Novanta ci fu un tentativo di abbattere idealmente ogni muro esistente, sulla scia emotiva della caduta del Muro di Berlino, ma ogni intento ha dovuto fare i conti con i reali interessi schierati in campo. All’epoca, negli Stati Uniti, gli anti-castristi residenti a Miami godevano di forte influenza non solo sul mondo politico e mediatico della Florida, ma anche sul Congresso. Esiste una corrente di pensiero che addirittura addebita agli anti-castristi la deflagrazione dello scandalo sessuale di Bill Clinton nel 1998, ritenuto “colpevole” – secondo questa tesi – di aver ammorbidito la propria posizione nei confronti di L’Avana. Nello stesso periodo, infatti, Cuba cercava di riaprirsi al mondo, ma ben presto si ritrovò ad affrontare un’ulteriore stretta delle spire dell’embargo senza trovare altri partner internazionali in grado di non farsi inibire dalla superpotenza statunitense. Il progetto di modernizzazione politica ed economica si è così arenato per essere recuperato da Raúl soltanto nel 2008, in un contesto globale caratterizzato da equilibri senz’altro diversi e più favorevoli.

Nel 1953, dopo il primo fallito tentativo di rovesciare il regime di Fulgencio Batista, Fidel Castro, sotto processo, disse: «Condannatemi, non mi importa. La storia mi assolverà». Il 26 luglio di sei anni dopo le forze rivoluzionarie costringeranno Batista alla fuga, conquistando il potere sull’Isola. A quasi sessanta anni di distanza da quegli eventi, la storia ha assolto la sua rivoluzione?

Dopo oltre seicento attentati subiti personalmente, dopo oltre sessanta anni di embargo costellati di attacchi terroristici e una propaganda mediatica ferocemente anti-castrista, ci troviamo oggi a prendere atto di un processo di normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Quello che avverrà con Trump, all’infuori delle sue dichiarazioni provocatorie, non è dato a sapersi e tutto è ancora da vedere nel concreto. Le immagini dei festeggiamenti degli anti-castristi di Miami a seguito del leader rivoluzionario sono esplicite. La frustrazione di chi non riesce a vincere con la forza diventa esultanza per la morte di un uomo che all’età di novanta anni aveva già detto e visto tutto. La storia assolve sicuramente Fidel Castro che, tra ragioni ed errori, scelte coraggiose e lati oscuri di un potere accentrato, ha comunque tenuto testa fino alla fine alla più grande potenza mondiale. Fidel Castro ha combattuto per la sua indipendenza e per quella del suo popolo, l’ha difesa ed è morto con la consapevolezza di essere stato indipendente.
Il pragmatismo l’ha distinto da Ernesto Guevara, altra figura leggendaria, e ne ha garantito anche la longevità. Il Che, compagno di guerriglia era un “romantico”, ideologo ed intellettuale, che intendeva esportare la sua visione priva di schemi politici in un continente ostico e nemico. Una scelta che poi lo ha portato alla morte in Bolivia all’età di 39 anni. Fidel Castro, dal canto suo, ha voluto abbracciare un colore politico ed operare in modo più pragmatico, in una posizione attendista e granitica di fronte ad un mondo prevalentemente ostile, in attesa del momento propizio per tornare a guardare all’esterno e a quel continente che, dall’ascesa di Hugo Chavez in Venezuela, si sarebbe tramutato in un alleato fondamentale per l’internazionalizzazione dell’isola, ancor prima dell’apertura a Cina e Russia. In definitiva, possiamo affermare che il bilancio della vita di Fidel Castro si conclude con una piena assoluzione, nonostante gli errori.




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