America Latina. È l’anno della verità: da qui al prossimo autunno tanti i Paesi chiamati al voto, tutto in ballo

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Il 2018 è un anno cruciale per le sorti del vasto Continente latinoamericano, esteso dalle calde aree nordamericane del Messico, al confine con gli Stati Uniti, dove, con l’elezione di Donald Trump, la tensione si è fatta sempre più palpabile, sino alle propaggini antartiche della Terra del Fuoco argentina. Le tante tornate elettorali che coinvolgeranno i Paesi della regione potrebbero modificare la composizione politica del territorio, a partire dal Brasile e dal Messico, veri e propri motori economici continentali, per arrivare ad altre realtà tese e in ebollizione, come il Venezuela e la Colombia. Sullo sfondo anche il recente passaggio di consegne a L’Avana, dove si è recentemente chiusa l’era Castro, con l’elezione del delfino Miguel Díaz-Canel, colui che avrà il non facile compito di modernizzare l’economia dell’Isola. Ne abbiamo parlato con il nostro esperto William Bavone, a cui abbiamo rivolto alcune domande.


A cura della Redazione

Allora William, partiamo da Cuba. Finisce l’era dei Castro, con l’addio di Raul. Al suo posto viene eletto quasi all’unanimità il presidente Miguel Díaz-Canel, l'”uomo nuovo” che dovrebbe modernizzare l’isola caraibica. Ne avevi già parlato nel 2013 e lo scorso anno su Scenari Internazionali. Quali saranno le priorità del nuovo presidente cubano?
Vincere all’unanimità non è cosa difficile quando si è l’unico candidato, ma va detto che vi è una preparazione a questo momento per certi versi storico, che parte da lontano. Già il passaggio di consegne da Fidel a Raul Castro nel 2008 ha segnato una svolta per l’Isola. Da un modello abbastanza rigido di matrice comunista, infatti, Raul ha inteso imbastire con il suo mandato un articolato processo riformista per dare al Paese la possibilità di approfittare della nuova conformazione regionale e internazionale del momento.
Non dimentichiamo che la fase del passaggio di consegne tra i due fratelli Castro ha coinciso con un periodo storico in cui il socialismo latinoamericano era dominante nel Continente mentre Russia e Cina si preparavano ad aumentare la loro influenza internazionale, approfittando della contemporanea crisi del modello occidentale. La presenza, quindi, di nuovi attori internazionali più inclini a tendere la mano a L’Avana, risultava determinante e propizia per pianificare un cambio strutturale. Cambio non facile, che vede ancora oggi il governo alle prese con uno snellimento del settore pubblico in favore dell’iniziativa privata. Ciò non toglie la necessità ideologica di mantenere lo stato capillare nel controllo dell’intera struttura, ma per lo meno ci si auspica che giunga a farlo in un modo nuovo.
Detto ciò, è l’internazionalismo cubano a rappresentare la vera novità del millennio. Raul Castro è riuscito ad aprire la propria economia al mondo, facendo leva sulla benevolenza regionale di Venezuela e Brasile e sul ritorno al dialogo con Mosca e Pechino. Da Cina e Russia, infatti, Cuba è riuscita ad ottenere nuova linfa finanziaria per le proprie aride casse pubbliche, mentre per conseguire un nuovo sviluppo ha anche dato vita ad una zona franca circoscritta al Porto Commerciale di Mariel, finalizzata ad attrarre investimenti esteri. Tutto ciò, va sottolineato, è avvenuto malgrado l’embargo statunitense, ancora in vigore, che ogni anno provoca conseguenze importanti per Cuba: dal 1961 al 2017, si stimano oltre 800 miliardi di dollari tra mancati guadagni e danni economici reali.
A Miguel Díaz-Canel, delfino di Raul Castro da tempi non sospetti, spetterà portare avanti il progetto riformista, sebbene sotto lo “sguardo” delle figure storiche della Rivoluzione del 1959, la cui memoria appare ancora solida all’interno dell’Assemblea Nazionale e del Partito Comunista Cubano. La sfida più grande per Díaz-Canel sarà tuttavia quella affrontata sul piano internazionale, ovvero nel diplomatico tentativo di trovare un nuovo dialogo con Washington. I tempi del disgelo con Obama sono lontani ormai, e Trump, attendista sino ad oggi nell’approccio statunitense al Continente latinoamericano, ha sempre criticato quanto fatto dal suo predecessore nei confronti di Cuba.
Il dialogo, ovviamente, resta aperto sotto traccia, ma tutto si complica se guardiamo all’atteggiamento protezionistico tenuto da Trump per rilanciare l’industria nazionale. Presto per dire quanto Díaz-Canel possa imprimere una propria forte impronta alla sua presidenza perché il suo cammino sarà scandito da tutti questi temi elencati ancora in essere e che necessitano di esser portati a compimento come – aspetto non di poco conto – la fusione delle due monete utilizzate sull’Isola. La doppia valuta, infatti, crea confusione oltre ad uno squilibrio sociale per cui chi lavora nel settore turistico è più avvantaggiato [il Peso Cubano Convertibile, CPC, è utilizzato prevalentemente in ambito turistico] rispetto ad altri settori che si rivolgono all’interscambio isolano [medici, operai, agricoltori e la società tutta utilizza il Peso Cubano, PC, quale moneta per gli scambi con un rapporto di circa 1:26 in favore del CPC].

Lo scorso anno esplodevano le protese in Venezuela, sullo sfondo di una pesante crisi economica. A maggio anche la Repubblica bolivariana dovrà rinnovare il suo presidente. Dopo le tensioni e le critiche internazionali, Maduro cerca un secondo mandato. Chi è il favorito e cosa potrebbe accadere dopo il voto se dovesse essere confermato al potere?
Non sono un veggente se dico che il 20 maggio sarà Maduro a vincere. A confermare ciò è il percorso imboccato dai chavisti dal 2013 ad oggi. Tutto ha avuto inizio con la morte di Chavez, che ha generato quello che ho sempre definito un lutto politico venezuelano. Con ciò voglio dire che all’indomani della morte dello storico leader, il popolo venezuelano si è sentito spaesato per aver perso in un colpo solo la sua guida politica e il partito che rappresentava. Mi spiego: Chavez, partendo da una forma politica socialista e bolivariana nel 1998, ha progressivamente dirottato la sua ideologia politica verso un personalismo, semplicemente assecondando le aspettative di fasce sociali che gli riconoscevano carisma e leadership.
Pertanto, soprattutto a seguito del golpe del 2002, socialismo e bolivarismo sono confluiti in un’unica ideologia imprescindibile dal suo interprete. Ecco quindi che nacquero il chavismo e la fede popolare, quasi incondizionata, in Hugo Chavez, una dottrina pericolosa che, con la morte del leader, ha visto crollare tutto l’apparato politico al seguito. Da qui si aprirono due scenari: da un lato, il Partito Socialista Unificato, per difendere la sua leadership, consolidò l’ideologia chavista elevandola a corrente ideologica ben più ampia ed accomunabile al pensiero bolivariano storico; dall’altro, l’opposizione intuì la vulnerabilità della leadership priva del suo leader. Ciò è comprovato da quanto avvenuto a partire dai primi mesi del 2014, ovvero un’escalation di proteste, scontri di piazza e tentativi di golpe mirati a rovesciare la presidenza Maduro, eletto l’anno prima con un vantaggio irrisorio. Maduro, dal canto suo, non ha saputo strutturare una reazione concreta e ha praticamente optato per la difesa ad oltranza dello status-quo, a tutela della propria leadership.
Con Chavez, Caracas prefigurava il grande obiettivo di diversificare l’economia per scongiurare la dipendenza dall’export petrolifero. Ciò, però, non è mai avvenuto ed il crollo del prezzo internazionale del barile ha devastato l’economia del Paese caraibico. A questo proposito, trovo abbastanza inquietante l’ultima strategia attuata da Maduro in politica monetaria volta a creare una cripto-valuta, il Petro, ancorata proprio al petrolio. Un errore ulteriore è stato quello di trasmettere al resto del mondo un’immagine antidemocratica del suo governo, agendo in maniera tale da estromettere dalle prossime elezioni i suoi maggiori competitor. Si tratta di scelte che, sebbene costituzionalmente legittime, appaiono politicamente scellerate nel contesto in cui ci troviamo. Mettere fuori dalla corsa alle presidenziali i maggiori partiti antagonisti non farà che accrescere la percezione di un risultato elettorale distorto nel voto che verrà.
Cosa accadrà dopo è stato dimostrato durante il recente 8° Summit delle Americhe a Lima del 12-14 aprile scorsi. Gli Stati Uniti, tramite il vicepresidente Mike Pence hanno espressamente anticipato che non intendono riconoscere questa tornata elettorale. Tale ammissione ha trasformato il Summit intracontinentale nell’ennesimo “tribunale internazionale” dove inserire al centro del dibattito la questione venezuelana. Agli Stati Uniti, si sono aggiunti in questo senso anche Brasile, Argentina, Cile, Colombia e Canada nel tentativo di isolare diplomaticamente il Venezuela. Pence ha aggiunto anche che “gli Stati Uniti non resteranno a guardare mentre il Venezuela collassa”. A buon intenditor poche parole.

Quest’anno, anche il Brasile andrà al voto. Lula, pur carismatico e molto popolare, non potrà candidarsi perché la magistratura ne ha disposto la carcerazione dopo le conclusioni di un’indagine ancora poco chiara. Il Partito dei Lavoratori ha comunque annunciato la sua candidatura. Se dovesse vincere, come appare probabile, sarebbe di fatto impossibilitato a governare. Potrebbero esplodere proteste e disordini?
Senza questa inchiesta giudiziaria, ancora poco chiara, Lula avrebbe sicuramente vinto le elezioni del prossimo ottobre e se le accuse non dovessero trovare definitivo riscontro, Lula vincerà. Se le accuse dovessero invece essere confermate si potrebbe giungere all’incandidabilità di Lula alla prossime elezioni. Senza il suo storico leader carismatico, il Partito dei Lavoratori (PT) non sarebbe in grado di individuare un degno sostituto con le stesse credenziali.
Questa è la situazione brasiliana ed è tutta in un dato: ad oggi, nonostante l’arresto dell’ex presidente del Brasile, un sondaggio rileva che Lula assorbirebbe oltre il 41% del voto popolare. Comunque vada da qui a ottobre, ci troviamo al cospetto di una meteora politica ormai perdente, ovvero Michel Temer. L’attuale mandatario, ex vicepresidente sotto Dilma Rousseff, ha assunto il comando giocando d’astuzia con il suo partito, i moderati del PMDB, contro i suoi stessi alleati del PT, sfruttando al massimo la situazione. Dopo la sua ascesa alla presidenza del Paese, anziché riformare le disfunzioni e correggere gli errori, Temer ha di fatto ribaltato quasi completamente la linea economica e sociale dei socialisti del PT, in favore di una politica neoliberale. In politica estera, Temer ha poi lavorato con Paraguay e Argentina per ottenere la sospensione del Venezuela dal Mercosur e dare impulso alle trattative per la liberalizzazione del commercio con l’UE. Tutto ciò ha avuto un prezzo politico enorme, cioè uno spaventoso crollo della popolarità dell’attuale presidente e la conseguente decisione di defilarsi da un’eventuale candidatura alla presidenza.

A luglio si attende anche il voto messicano. Nel corso dell’ultimo anno, Enrique Peña Nieto ha dovuto fare i conti con le forti pressioni dell’amministrazione Trump sia in tema migratorio che in tema commerciale. Sul tavolo ci sono infatti le ipotesi del consolidamento del muro confinario tra Stati Uniti e Messico a spese proprio di quest’ultimo, e dell’abbandono unilaterale del NAFTA da parte di Washington. Le nuove tensioni tra i due Paesi vicini come influenzeranno il voto?
Enrique Peña Nieto non sarà di certo ricordato con affetto dal popolo messicano. La sua presidenza ha dovuto fare i conti con un crescendo di violenza e disparità sociali, ma da qui a dire che ci possa essere un cambiamento radicale nella politica del Paese nordamericano è praticamente impossibile. Impossibile per posizione geografica, per interessi oligarchici e soprattutto per la forte dipendenza dal vicino statunitense. La chiusura commerciale di Washington preoccupa il Messico che riversa oltre il 70% del proprio export proprio in quel mercato. Tuttavia, si compie spesso l’errore di credere che ciò sia vincolato al NAFTA e che, dunque, venendo meno questo trattato, il Messico subirebbe un duro contraccolpo.
In realtà, il Messico sin dagli anni Ottanta aveva deciso di connettere la propria economia a quella del più forte vicino. Semmai, la ratifica del NAFTA nel 1994 ha creato false aspettative nel tessuto industriale messicano dal momento che, in termini reali, l’export non ha registrato grandi variazioni. Il Paese ispanofono era già dipendente dal mercato statunitense ed il NAFTA non ha fatto altro che certificarlo, a discapito di chi invece attendeva gli anni Novanta come l’epoca di una nuova stagione “ruggente” di crescita e benessere. Il Messico, inoltre, non ha mai innovato la produzione tanto che la presenza statunitense è stata ben presto erosa da quella cinese, ben più efficiente ed efficace nel garantire semilavorati e prodotti artigianali ad un minor prezzo.
Ciò che preoccupa oggi Città del Messico è che, a prescindere dal NAFTA, l’aumento dei dazi doganali priverebbe il Paese dell’opportunità di fare riferimento al mercato della prima economia mondiale. Anche questo argomento è stato trattato in seno al Summit delle Americhe di Lima, in cui si è percepito un errore strategico da parte messicana, cioè continuare a cercare il consenso di Washington per ridurre i danni in termini di export, con una controparte risolutamente intenzionata a dettare le proprie condizioni per salvaguardare l’industria nazionale. Una più congrua strategia per il Messico che verrà e per chi erediterà la presidenza da Peña Nieto, dovrebbe essere quella di guardare a sud dei propri confini o, meglio ancora, rivolgersi ad ovest verso i mercati asiatici per sottrarsi dalla dipendenza verso gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda invece il muro di confine, mi limito a dire che a mio avviso siamo solo dinnanzi ad una dialettica di basso livello che ha la scopo di creare consenso elettorale ed innescare polemiche allo stesso tempo. Per altro, uno “pseudo-muro” di confine è già presente fra i due Paesi e furono George H.W. Bush, prima, e Bill Clinton, poi, a realizzarlo, per altro con scarsi risultati in termini di lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di droga.

A fine maggio, Juan Manuel Santos consegnerà il mandato presidenziale colombiano nelle mani del suo successore. Dopo due anni di duro lavoro diplomatico, a che punto è il processo di pace tra le autorità e le FARC?
Santos lascia la presidenza mettendo il suo nome sui libri di storia. Proprio il mandatario uscente è stato protagonista di un lungo processo di pace interno al Paese che ha portato alla fine di una guerra civile che durava da più di cinquant’anni. Santos porta la pace tra il governo e le FARC in modo definitivo e la sua resta pur sempre una uscita da vincitore. Per quanto riguarda le FARC, assistiamo ad un declino progressivo ma inarrestabile: a seguito della consegna delle armi, dell’abbandono degli appostamenti di guerriglia e del ritorno nella società, ora pian piano accuse e processi sembrano delineare un quadro punitivo molto duro nei confronti degli ex militanti del movimento rivoluzionario. Di recente, uno dei massimi esponenti delle milizie ribelli, Jesus Santrich, è stato infatti arrestato con l’accusa di traffico di droga e non credo che sarà l’unico soprattutto se a vincere le elezioni del prossimo 27 maggio sarà un uribista. La destra colombiana, a mio avviso, la spunterà alle prossime elezioni con il partito dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez pronto a riprendersi la leadership dopo i due mandati consecutivi di Santos. Uribe, da sempre critico nei confronti del processo di pace, è stato anche sostenitore vincente di un referendum atto a negare il consenso popolare al primo accordo tra Governo e FARC nell’ottobre 2016. Lo stesso partito, inoltre, si è aggiudicato la maggioranza nel nuovo Parlamento in occasione delle elezioni politiche dello scorso 11 marzo scorso. Due indizi che non possono essere trascurati guardando al prossimo voto presidenziale.


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