Bloccate le riforme, non si blocchi il riformismo

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Andrea Fais

Il voto referendario del 4 dicembre sarà ricordato come uno tra i più partecipati nella storia repubblicana, con l’affluenza pari al 68,48%, assumendo quasi le sembianze di una tornata elettorale amministrativa o nazionale. Il dato della partecipazione non è certamente omogeneo in tutto il Paese, anzi si muove da un livello minimo del 47,81%, toccato nella provincia di Crotone, ad uno massimo del 78,9%, registrato in quella di Padova. In generale, il dibattito sembra così aver coinvolto maggiormente il centro-nord dell’Italia, con un più marcato disinteresse al sud.
Come abbiamo già anticipato sulla nostra pagina Facebook questa mattina, incrociando l’analisi della distribuzione geografica con quella della distribuzione anagrafica del voto referendario, è possibile delineare un quadro piuttosto chiaro delle tendenze che hanno decretato la vittoria del fronte del NO (59,11%), rappresentato a vario titolo da Beppe Grillo, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, e la sconfitta del fronte del SI (40,89%), promosso principalmente dal presidente del Consiglio dimissionario Matteo Renzi e dal suo ministro Maria Elena Boschi.


DATI E NUMERI

Sul piano geografico, notiamo che il SI vince o restringe notevolmente il divario che lo separa dal NO, conquistando 7-8 punti in più rispetto alla media nazionale, nella città metropolitana di Milano e in poche ma significative aree dove alla tradizionale prevalenza politica del centro-sinistra si aggiunge una radicata presenza industriale, cioè nell’Emilia-Romagna centro-orientale: Bologna, Modena, Reggio-Emilia, Ravenna, Forlì-Cesena ma non Ferrara, Parma e Piacenza; nella Toscana interna: Firenze, Pistoia, Pisa, Prato, Siena e Arezzo ma non Livorno, Lucca, Massa e Grosseto; nell’Umbria settentrionale: Perugia ma non Terni; e nell’Alto Adige.
Il NO trionfa in Veneto, nel Lazio, in Abruzzo e in tutto il Meridione, dove l’affluenza è stata tuttavia ben più limitata, conquistando addirittura punte di consenso del 73-74% nelle Isole.
Il voto generazionale, invece, ci dice che degli elettori di età compresa tra i 18 e i 34 anni, l’81% ha votato per il NO e soltanto il 19% per il SI.
Un ulteriore dato, diffuso da YouTrend, sottolinea che nei 100 comuni con maggiore tasso di disoccupazione ha vinto il NO con il 65,8%, mentre nei 100 comuni con minore tasso di disoccupazione ha vinto il SI con il 59%.


SIGNIFICATO POLITICO

Il referendum confermativo sulla riforma costituzionale è stato sicuramente trasformato in un voto sull’operato del governo, ma i dati mostrano che potrebbe addirittura essersi ulteriormente modificato in una reazione psicologica di protesta contro lo status-quo, dividendo il Paese tra chi è ancora escluso, per varie ragioni socio-economiche, dal mondo del lavoro e dell’impresa e chi ne fa parte da anni, ma anche tra chi è solitamente più “trascurato” dallo Stato centrale (in particolare il Mezzogiorno e le Isole) e chi gode di un livello buono o addirittura ottimo in termini di sviluppo, benessere, infrastrutture e qualità della vita in genere.
Chiaramente, si tratta di problematiche che poco o nulla hanno a che vedere con le materie chiamate in causa dalla riforma costituzionale, o almeno non direttamente. Parliamo, inoltre, di questioni ataviche, che attanagliano il nostro Paese da almeno sei anni e, nei casi più gravi, addirittura da decenni. Dunque è vero che il populismo ed il suo alter-ego, ossia il qualunquismo, hanno condizionato a tal punto il referendum che milioni di persone sono andate a votare esclusivamente con l’intenzione di “punire” Matteo Renzi? In tal caso, la soddisfazione – condivisa in modo bipartisan da governo e opposizioni – per l’elevata partecipazione democratica al dibattito costituzionale, in passato molto meno coinvolgente, sarebbe fallace.
Dati alla mano, potendo confermare il carattere quasi psicologico di protesta del voto, parrebbe lecito dubitare del fatto che molte persone abbiano persino letto la domanda impressa sulla scheda elettorale, al contrario barrando direttamente il NO soltanto per costringere alle dimissioni Matteo Renzi, percepito come l’emblema dei mali del Paese.
Si tratterebbe, dunque, di una clamorosa sconfitta della democrazia, e del dibattito sulle riforme nello specifico, se veramente milioni di elettori avessero utilizzato a questo scopo uno strumento destinato a ben altro uso.


E ORA?

Quella che Matteo Renzi aveva definito “accozzaglia” è un fronte composito e variegato di leader con cui oggi il Paese dovrà necessariamente tornare a fare i conti. Il Movimento 5Stelle, in primis, si profila al momento come la forza politica più accreditata – in termini numerici – a sfidare il Partito Democratico per la leadership di governo, ma dovrà gestire la patata bollente dell’amministrazione di Roma, test di risonanza nazionale per vagliare le capacità politiche dei grillini.
Forza Italia, la Lega Nord e Fratelli d’Italia – per ora privi di una strategia comune di coalizione – sembrano ancora in forte difficoltà e restano profondamente incerti i loro margini di recupero. In particolare, Silvio Berlusconi non può ancora ricandidarsi a causa dell’interdizione dai pubblici uffici, confermata dalla Cassazione nel 2014. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, da par loro, non sembrano avere i numeri né la credibilità per guidare un eventuale nuovo centro-destra.
Alla sinistra di Renzi, partendo da Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, per arrivare a Vendola, Civati e Fassina, qualcosa si muoverà ma sarà presumibilmente destinato a fare poco rumore, tanto più perché l’autobus del radicalismo di sinistra europeo (Syriza, Podemos, Front de Gauche ecc. …) è già arrivato al capolinea da almeno un anno.
Il Partito Democratico (PD) è a rischio scissione? Non lo sappiamo ancora, tuttavia emerge un dato: le diverse anime che hanno contribuito alla sua fondazione si dimostrano sempre più inconciliabili. Se l’errore sta nei presupposti, è evidente che dobbiamo tornare agli anni Novanta, quando, private della spinta propulsiva craxiana e obbligate dall’assetto bipolare, le forze del riformismo e del progressismo italiane si reinventarono all’interno del centro-sinistra raccolto nell’Ulivo. Romano Prodi cercò allora di assemblare un insieme variegato di forze politiche, provenienti da tradizioni molto diverse fra loro: cattolico-popolari, socialdemocratiche e socialiste, liberali, ambientaliste e comuniste.
Il Partito Democratico nacque nel 2007, alla fine della decennale esperienza ulivista, densa di buoni risultati ma anche di fragorose sconfitte e fallimenti, al fine di cementare in un unico soggetto politico tutte le espressioni e le personalità che avevano guidato il cammino della coalizione fino a quel momento. Tuttavia, è sempre stata palpabile l’egemonia della componente post-comunista, proveniente dal Partito Democratico della Sinistra (PDS) e, successivamente, dai Democratici di Sinistra (DS).
Prima della vittoria di Matteo Renzi, di provenienza cattolico-popolare e ispirazione lib-lab, alle ultime primarie del partito nel dicembre 2013, il PD ha avuto quattro segretari. Di questi, ben tre (Walter Veltroni, Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani) provenivano dall’area berlingueriana e dal massimalismo sindacalista. Soltanto Dario Franceschini, rimasto in carica appena otto mesi nel corso del 2009, proveniva dall’area cattolico-popolare.
Matteo Renzi, emerso alla guida del partito e del governo nazionale come “innovatore” e “rottamatore”, ha ottenuto il 40% dei consensi praticamente da solo contro tutti, in una tornata elettorale che, come detto, somiglia molto più ad un giudizio sul suo operato che ad un referendum confermativo sulle riforme costituzionali. È un patrimonio politico che vorrà giocarsi lanciando una nuova formazione riformista di massa?
L’assenza di una cultura riformista egemone in seno al principale partito italiano (e non solo) si conferma, dunque, come uno dei limiti più importanti per il nostro Paese, costretto ad arenarsi sugli scogli di blocchi politici ancorati – sia a destra sia a sinistra – a molti degli schemi della Prima Repubblica, in un contesto storico totalmente diverso.
Il rischio è stato ed è quello di riproporre continuamente surrogati di idee, comportamenti o atteggiamenti di quaranta o cinquanta anni fa, del tutto inutili a comprendere le necessità strutturali del nostro sistema-Paese, in sé ed in relazione all’imprescindibile contesto internazionale, quali la semplificazione, l’ottimizzazione della spesa pubblica e del welfare, la riduzione del carico fiscale per imprese e famiglie, la ridefinizione delle partnership pubblico-private, maggiori e migliori infrastrutture, l’innovazione manifatturiera (Industria 4.0), la promozione del Made in Italy e del Made with Italy nel mondo, una più forte attrattività di investimenti esteri di qualità e dei flussi turistici, la costruzione di nuovi vettori di politica estera verso le economie emergenti e così via.
Anche di tale meccanismo distruttivo, più mentale che politico, pare essere stato vittima questo referendum che, al di là del merito e dell’effettiva validità delle modifiche costituzionali che chiedeva di confermare, ha di fatto schiacciato il riformismo sotto il compressore degli estremismi e degli infantilismi.


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