BRICS. A Rio, premier Li Qiang rilancia multilateralismo e centralità del diritto internazionale

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Cala il sipario sul 17° vertice dei capi di Stato e di governo del BRICS, l’ormai celebre raggruppamento delle economie emergenti. Formatosi tra il 2006 e il 2010 su iniziativa di Brasile, Russia, India e Cina, cui si è poco dopo aggiunto il Sudafrica, questo meccanismo informale di coordinamento si è recentemente allargato, accogliendo sei nuovi Paesi membri: Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Indonesia ed Iran. Dopo la decisione presa al vertice di Kazan’, in Russia, lo scorso anno, il raggruppamento ha previsto una nuova categoria, quella dei Paesi partner, uno status meno “vincolante”, che ha attirato l’interesse di molti governi, intenzionati ad avvicinarsi al BRICS senza tuttavia pigiare sull’acceleratore nel percorso verso una piena adesione. Nel giro di un solo anno sono già dieci, mentre altri restano in attesa delle procedure di ingresso: un dinamismo che pone una serie di sfide e opportunità per l’Occidente. A questo riguardo, il direttore responsabile Andrea Fais è intervenuto sulle “colonne” di China Radio International (CGTN) per la rubrica “In altre parole”. Proponiamo qui di seguito la versione integrale dell’articolo.


di Andrea Fais
[Direttore responsabile di Scenari Internazionali]



È in chiusura oggi, a Rio de Janeiro, il vertice annuale dei capi di Stato e di governo del BRICS. Ispirato al tema generale ‘Rafforzare la Cooperazione nel Sud Globale per una Governance più Inclusiva e Sostenibile’, il summit del più importante e conosciuto raggruppamento di economie emergenti ha chiamato in causa per la prima volta tutti i nuovi protagonisti, di recente o recentissima adesione.

Ai cinque membri storici — Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica — che tra il 2006 e il 2010 formarono l’ormai celebre acronimo con le lettere iniziali dei rispettivi nomi, negli ultimi due anni si sono affiancati Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Indonesia e Iran. Il consesso ha inoltre aperto le porte ad altri dieci Paesi partner — categoria creata durante il summit di Kazan’ dello scorso anno — consentendo a Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan e Vietnam di prendere parte a dibattiti e discussioni. Attualmente il BRICS racchiude oltre metà della popolazione mondiale e circa il 30% del PIL globale, contribuendo per più del 50% alla crescita economica del pianeta.

“Si stanno verificando cambiamenti mai visti prima in un secolo ad un ritmo accelerato, le regole e l’ordine internazionale sono messi gravemente in discussione mentre l’autorità e l’efficacia delle istituzioni multilaterali continuano a scemare”, ha osservato il primo ministro cinese Li Qiang durante la sessione plenaria di domenica. Al crescente caos globale di questa fase geopolitica, Pechino contrappone quindi una visione della governance globale “caratterizzata da consultazioni allargate, contributi congiunti e benefici condivisi”.

Fondato sui Cinque Principi di Coesistenza Pacifica, l’approccio della Cina in politica estera procede lungo il solco della cooperazione dal mutuo vantaggio (win-win) e della non ingerenza negli affari interni altrui. Rinunciando a qualsiasi forma di paternalismo politico nei confronti dei propri interlocutori, il gigante asiatico si è guadagnato la fiducia di gran parte delle nazioni meno sviluppate, inserendosi con successo nei mercati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, laddove l’Occidente paga ancora la pesante eredità del colonialismo e dell’interventismo del passato.

“Quale forza trainante del Sud Globale, il Paesi del BRICS dovrebbero sostenere l’indipendenza e l’autosufficienza, dimostrare senso di responsabilità e svolgere un ruolo maggiore nella costruzione di consenso e sinergie”, ha spiegato Li ai presenti. Eppure non si tratta esattamente di un blocco ma, più propriamente, di un meccanismo informale di coordinamento concentrato su tre macro-aree di intervento: politica e sicurezza; economia e finanza; società civile e scambi people-to-people.

In questo senso, il raggruppamento ha mantenuto fede alla sua natura originaria scongiurando qualsiasi ipotesi di trasformarsi in un’alleanza militare. Esattamente come avvenuto nel secolo scorso per il Movimento dei Non Allineati, sorto in seguito alla Conferenza di Bandung del 1955, i Paesi del BRICS non condividono un’ideologia né evidenziano particolari caratteristiche comuni tra loro: ognuno ha un proprio sistema politico ed economico, un suo esercito nazionale nonché peculiarità sociali e culturali irriducibili a quelle degli altri.

Se nel rigido sistema bipolare della Guerra Fredda l’assenza di una linea unitaria tra i Paesi non subordinati alle due superpotenze rappresentava un innegabile fattore di debolezza, nel mondo di oggi l’eterogeneità politica e l’approccio pragmatico del BRICS sono invece dei notevoli punti di forza. Chiaramente ciò significa che permangono, a livello bilaterale, divergenze ed incomprensioni tra alcuni Stati membri. Tuttavia, fin’ora, ciò non ha mai pregiudicato l’unità del raggruppamento, a volte addirittura consolidata dalla mediazione di uno o più membri terzi, rafforzandone così la funzione di piattaforma orientata al dialogo e alla risoluzione pacifica delle controversie.

La globalizzazione, pensata dalle classi dirigenti statunitensi ed europee come naturale estensione del proprio modello di sviluppo al resto del mondo, ha in realtà favorito ed accelerato la diffusione di capitali, tecnologie e competenze al di fuori dell’Occidente, fornendo a moltissime nazioni in via di sviluppo strumenti ed opportunità per crescere e progredire. Al loro grande avanzamento economico, però, non si è sin qui accompagnato un adeguato processo di legittimazione politica che conferisca a questi Paesi e alle loro leadership pari dignità e pari trattamento nel quadro della comunità internazionale. Portavoce delle ragioni del Sud Globale, il BRICS intende perciò ripristinare la centralità del multilateralismo in un’arena mondiale che vede erodersi, anno dopo anno, le relative certezze del passato.

Su questo aspetto, il primo ministro cinese è stato piuttosto chiaro: “Di fronte a crescenti conflitti e divergenze, è necessario migliorare la consultazione ampia incentrata sull’eguaglianza e sul rispetto reciproco; di fronte ad interessi comuni profondamente intrecciati, è necessario perseguire il contributo congiunto attraverso la solidarietà; di fronte alle opportunità di sviluppo dal vantaggio vicendevole, è necessario mantenere una mentalità aperta per ricercare successo reciproco e benefici condivisi”.

Malgrado l’attivismo diplomatico sui generis di Donald Trump, è innegabile che i Paesi del G7 stiano gradualmente perdendo la loro storica capacità di incidere sui processi politici in corso nel resto del pianeta. Non si tratta di una novità degli ultimi tempi ma del rapido incedere di un processo cominciato molti anni fa, quando la leadership statunitense, fortemente influenzata dall’interventismo dei circoli neoconservatori, si rese responsabile di gravi violazioni del diritto internazionale. Il sostanziale supporto politico e militare alle recenti operazioni di Israele in ben sei teatri mediorientali — Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria e Iran — sta facendo il resto, minando la credibilità dell’Occidente agli occhi del mondo musulmano e non solo.

Viene da sé che la ritrovata vivacità del BRICS pone Stati Uniti ed Unione Europea di fronte ad una sfida epocale. Raccolto nella NATO, ultima alleanza sistemica sopravvissuta alla fine della Guerra Fredda, l’Occidente “collettivo”, come lo ha definito il presidente russo Vladimir Putin, ha due possibilità: smussare gli angoli, dialogare con i Paesi emergenti alla pari e negoziare una complessiva riconfigurazione dell’architettura della governance globale oppure irrigidirsi sempre di più, isolandosi dal resto del pianeta.



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