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di Andrea Fais
1. Finisce ufficialmente un conflitto cominciato nel 1950 e soltanto “sospeso” dall’armistizio del 1953, che divise la Penisola Coreana in due Stati, uno alleato di Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese e l’altro alleato degli Stati Uniti, fissando la zona demilitarizzata transitante per il 38° parallelo come linea di demarcazione confinaria tra Nord e Sud.
L’accordo di pace concluso da Kim Jong-un e Moon Jae-in nel quadro del terzo vertice di dialogo intercoreano – i primi due datavano 2000 e 2007 – entrerà a pieno titolo nei libri di storia di tutto il mondo, sancendo la definitiva vittoria della Sunshine Policy, la politica «della riconciliazione e della cooperazione» lanciata dall’ex presidente Kim Dae-jung alla fine degli anni Novanta e sancita nella Dichiarazione di Berlino (marzo 2000), e della linea dei ‘4 no’: nessuna ostilità verso il Nord, nessuna intenzione di attaccare militarmente il Nord, nessun tentativo di rovesciare il governo del Nord, nessun atto finalizzato ad accelerare artificialmente la riunificazione.
L’immagine di Moon che prende per mano Kim accompagnandolo all’interno dell’area territoriale sudcoreana, non ha soltanto un alto valore simbolico ma consegna agli annali il primo ingresso di un capo di Stato nordcoreano sul suolo sudcoreano in sessantacinque anni. Il leader che sembrava più insensibile e restio al compromesso rispetto alle figure del nonno, Kim Il-sung, e del padre, Kim Jong-il, ha col tempo acquisito una maturità diplomatica sorprendente. Dopo un anno e mezzo di test nucleari, lanci missilistici, rinnovate tensioni e minacce di intervento, le diplomazie, che continuavano comunque a lavorare incessantemente sotto traccia, hanno compiuto un vero e proprio “miracolo”, scongiurando un conflitto che sarebbe stato catastrofico per tutti gli attori coinvolti.
2. L’intesa tra Cina e Stati Uniti ha influito in maniera determinante sull’accordo raggiunto tra Seoul e Pyongyang. Lo scorso anno, in occasione della sua visita a Pechino, Donald Trump aveva chiesto esplicitamente aiuto al presidente cinese Xi Jinping affinché intervenisse su Kim Jong-un per farlo desistere da qualunque azione sconsiderata e riportarlo al tavolo delle trattative. Tuttavia nei mesi scorsi, dalle parti di Washington, la diplomazia ha spesso urtato contro i toni bellicosi dello stesso presidente e di alcuni suoi stretti collaboratori. Lo scorso anno, Xi Jinping ha richiamato più volte alla calma quelli che erano ormai diventati due acerrimi rivali, ergendo di fatto Pechino ad arbitro della contesa.
A partire dalla scorsa estate, la Cina ha messo in campo una diplomazia dal doppio binario: da un lato misure decise ed intransigenti nei confronti di Pyongyang, come il blocco delle importazioni dalla Corea del Nord di una serie di beni, quali carbone, ferro e prodotti ittici, e, più recentemente, il divieto di esportazione di beni dual-use, potenzialmente applicabili in ambito militare; dall’altro lato, non ha esitato a dichiarare una pronta reazione contro qualsiasi tentativo di destabilizzare la Penisola Coreana, lanciando un chiaro avvertimento alla Casa Bianca.
Con le visite di Moon, a dicembre, e Kim, ad inizio aprile, Pechino è diventata il vero centro della diplomazia nella regione Asia-Pacifico. Con questo shift degli equilibri globali, la speranza è che anche la disputa in atto tra Stati Uniti e Cina a livello commerciale trovi una sua soluzione pacifica, evitando conseguenze distruttive anche per l’Europa.
3. La Regione Industriale di Kaesŏng, creata nel 2002 in territorio nordcoreano in prossimità del confine con il Sud, potrà finalmente guardare al futuro dopo le incertezze del passato. La zona economica speciale, inaugurata a seguito del primo vertice intercoreano tra Kim Jong-il e Kim Dae-jung, è un’area dedicata agli investimenti di aziende sudcoreane allo scopo di impiegare manodopera di vario livello nordcoreana. L’obiettivo originario, oltre al riavvicinamento diplomatico, era quello di esportare a Nord il know-how delle più avanzate industrie del Sud, ravvivando l’indotto locale.
Con l’accordo di ieri, l’area, che aveva già riaperto i battenti nell’autunno scorso, tornerà al centro delle relazioni tra le due Coree in una fase nuova e molto più promettente rispetto al passato, segnata dallo sviluppo dell’industria 4.0 su scala globale e da un’economia in crescita (+3,9% nel 2016, ultimo dato disponibile) a livello locale, nonostante le tensioni. Per avere un’idea dell’ampio divario economico ancora esistente tra le due Coree, basti osservare che, stando ai dati del 2016, il PIL del Sud è circa 78 volte quello del Nord. Eppure, se la cooperazione andrà avanti, nei prossimi dieci anni potrebbe ridursi non di poco.
4. Ci sono ora margini sufficienti per ipotizzare la creazione di un organismo permanente, che col tempo potrebbe assumere la forma di un direttorio, composto da un pari numero di delegati del Nord e del Sud e da alcuni osservatori internazionali, dove discutere di cooperazione in campo economico, commerciale, culturale, sociale e così via. Sebbene in un contesto piuttosto diverso, questo organismo potrebbe darsi l’obiettivo a lungo termine di applicare alla Penisola una versione peculiare del modello ‘Un Paese, due sistemi’, già adottato dalla Cina nelle regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao.
Chiaramente, questo implicherebbe alcune precondizioni. Da un lato, Pyongyang dovrebbe dare il via ad una serie di riforme politiche ed economiche verso lo Stato di diritto e l’economia di mercato, per altro riprendendo un cammino già avviato tra gli anni Novanta e gli anni Duemila con l’inaugurazione di alcune zone economiche speciali; dall’altro, Seoul, chiusa ufficialmente la lunga parentesi di ostilità post-bellica, dovrebbe risolvere i suoi accordi militari con gli Stati Uniti, una presenza ormai anacronistica e potenzialmente nociva in una regione del mondo sempre più decisiva dal punto di vista economico-commerciale e totalmente autosufficiente dal punto di vista politico e diplomatico, come dimostra la prosecuzione dei lavori per il Partenariato Trans-Pacifico anche dopo l’abbandono unilaterale dell’accordo da parte degli Stati Uniti, voluto da Trump nel gennaio 2017.
5. Per l’Europa, sebbene lontana geograficamente da quello scenario, può aprirsi una fase nuova. Quello sul Mar Giallo restava l’ultimo vero arco di crisi nella regione Asia-Pacifico. Con l’elezione di Rodrigo Duterte nelle Filippine, difatti, si era già dissolta da tempo la disputa tra Pechino e Manila per le acque contese nel Mar Cinese Meridionale, aperta unilateralmente dall’ex presidente Benigno Aquino III con la richiesta di arbitrato internazionale. L’ASEAN, proprio in questi giorni riunita a Singapore, ha già parlato, anche per bocca del rappresentante di turno della presidenza, cioè il primo ministro singaporiano Lee Hsien Loong, opponendosi al protezionismo ed evidenziando la ferma volontà di scongiurare qualsiasi ipotesi di guerra commerciale.
Dall’altra parte del Pacifico, la missione di Angela Merkel negli Stati Uniti si è praticamente conclusa con un nulla di fatto. Cercare di convincere Trump a rivedere le sue posizioni sul protezionismo, persino nei confronti della sola Europa, e sull’Iran, era un’impresa piuttosto ardua già in partenza. L’Europa dovrà dunque orientarsi altrove, principalmente verso Est, per continuare a garantire alle sue imprese un posizionamento di primo piano nei mercati esteri, anche a costo di rivedere radicalmente le sanzioni adottate nei confronti della Russia. In attesa che il processo di Minsk si sblocchi in senso positivo per entrambe le parti, i partner dell’Estremo Oriente restano i soli con cui poter dialogare in modo maturo e consapevole su temi stringenti come il commercio, gli investimenti, la connettività, l’innovazione e l’ambiente.
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