di Cristophe Dumont
[Economista di CANDRIAM]
La minaccia avanzata qualche settimana fa dal presidente degli Stati Uniti di imporre su tutti i prodotti provenienti dal Messico dazi doganali del 5% (con una tariffa che salirebbe progressivamente ogni mese fino al 25%, entro il primo ottobre), ha mostrato in tutta la sua forza la vulnerabilità messicana.
L’accordo raggiunto con gli Stati Uniti dopo la decisione del presidente Trump di rafforzare il controllo dei confini non ha scongiurato definitivamente la minaccia dei dazi. Nel corso degli anni il Paese si è reso sempre più dipendente dal vicino: quasi l’80% dell’export è infatti destinato agli Stati Uniti e queste esportazioni costituiscono quasi il 30% del PIL nazionale (grafico 1).
Grafico 1: Commercio verso gli Stati Uniti
(%, peso nel PIL del Messico)
Il Messico, insieme al Vietnam, rappresenta di gran lunga il Paese più esposto e vulnerabile ad un aumento dei dazi statunitensi. Da ciò si comprende ancora di più l’impatto fortemente negativo che un eventuale incremento delle tariffe eserciterebbe sulla crescita del Paese. In un contesto di crescita del PIL già fortemente indebolito, il Messico entrerebbe quasi sicuramente in recessione (grafico 2).
Grafico 2: Crescita del PIL
(%, su base annua)
Il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador non ha dunque avuto altra scelta se non quella di un rapido intervento distensivo con l’invio di 6.000 uomini della Guardia Nazionale alla frontiera sud per arginare i flussi di rifugiati provenienti dall’America centrale e meridionale. Tuttavia, l’accordo concluso di recente con gli Stati Uniti non ha scongiurato definitivamente la minaccia dei dazi. Come ha ricordato Donald Trump, se il numero di migranti non dovesse scendere a sufficienza, la minaccia potrebbe tornare nuovamente attuale.
Fonte: Verini&Associati