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di Andrea Fais
L’atmosfera incandescente creatasi all’interno del Partito Democratico nei giorni che hanno preceduto l’assemblea nazionale di domenica scorsa è stata tra i segnali più evidenti di una crisi che nasce da lontano. La coincidenza temporale tra la fase di preparazione de La Penisola del Tesoro, il nostro ultimo numero, dedicato proprio all’Italia, e il periodo “caldo” pre e post referendum costituzionale ci ha creato non pochi problemi logistici. Quando abbiamo pensato e programmato il piano di lavoro sul finire dell’estate, Matteo Renzi sedeva ancora saldamente sulla poltrona principale di Palazzo Chigi. Gli ultimi sondaggi relativi al referendum davano addirittura il Sì in rimonta sul No, malgrado la forbice tra le due scelte elettorali fosse tutt’altro che minima. Nel giro di due mesi, invece, è cambiato tutto.
La clamorosa debacle del 4 dicembre e le conseguenti dimissioni del governo in carica hanno rimescolato le carte in tavola, aprendo una fase di instabilità e incertezza in un Paese già lacerato dalla crisi occupazionale e dalle precarie condizioni di una parte importante del suo sistema bancario. Anche per questo, evidentemente, il presidente Sergio Mattarella ha ritenuto opportuno colmare in breve tempo il vuoto lasciato da Renzi con un governo, il terzo di questa legislatura, che fosse quanto più possibile in continuità con quello precedente. In particolare, il passaggio di Maria Elena Boschi dalla delicatissima guida del Ministero per le Riforme a quella, meno emergente ma altrettanto strategica, della Sottosegreteria della Presidenza del Consiglio, conferisce all’esecutivo in carica un marchio di fabbrica caratterizzato da equilibri interni quasi identici al precedente.
Questo avrebbe dovuto già far capire alla cosiddetta “minoranza” che, nonostante la sconfitta del 4 dicembre, le componenti moderate e riformiste del Partito Democratico non avrebbero arrestato il percorso di trasformazione e ridefinizione interna portato avanti dall’ex sindaco di Firenze nel corso degli ultimi cinque anni, prima dalle sedie dell’opposizione interna e poi direttamente dagli scranni della guida del partito e del governo, andando probabilmente a risolvere una contraddizione che ha radici nel passato.
Lo abbiamo sottolineato proprio in uno degli articoli del nostro ultimo numero, dove chi scrive ha analizzato, a partire dai dati del voto referendario, una situazione di incompatibilità sempre più evidente tra le due anime che caratterizzano il partito. Non stiamo semplicemente assistendo ad una riedizione aggiornata del novecentesco scontro tra riformisti e massimalisti. Non soltanto perché alcuni esponenti di punta di tradizione post-comunista, come Piero Fassino o Walter Veltroni, hanno deciso di schierarsi, sebbene con varie sfumature critiche, dalla parte di Matteo Renzi, ma anche e soprattutto perché chi oggi sta per uscire dal PD lamentando nervosamente lo smarrimento di una politica di sinistra, come Massimo D’Alema o Enrico Rossi, si è scontrato con una realtà dei fatti impietosa, che mostra ancora una volta tutta l’astrattezza di una collocazione politica eternamente sospesa tra il massimalismo del passato, rievocato soprattutto per ragioni elettorali, ed il riformismo, contro cui l’ultima generazione del PCI decise di combattere, specie sul piano morale, una battaglia politica a tratti ancor più dura di quella condotta contro le destre.
In termini di contenuti, in realtà, il blocco PDS/DS non è mai andato oltre la dismissione simbolica della Bolognina, mantenendo globalmente inalterati circuiti di rappresentanza, strutture organizzative e modalità di espressione politica. Malgrado gli slogan ed una certa estetica, Marx e Lenin erano stati sepolti già da tempo. Eppure, anziché incamminarsi sulla via riformista indicata molti anni prima da Giorgio Amendola, negli anni Novanta la scelta fu quella di lasciare tutto invariato ed egemonizzare il campo del centro-sinistra, ormai quasi completamente sbaragliato dagli effetti dell’inchiesta Mani Pulite. Il PDS pretese così di sostituirsi, anche in campo internazionale, al Partito Socialista Italiano senza averne tuttavia le capacità. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il PSI aveva infatti portato avanti un’azione politica che gli permise di salire al governo nel segno di un ambizioso ma consapevole progetto di riforma che sintetizzasse le ragioni del merito e quelle del bisogno, allargando il bacino del consenso della sinistra italiana a settori della società quali i liberi professionisti, gli esercenti e gli imprenditori, che fino al decennio precedente erano stati di fatto costretti a votare al centro o a destra a causa del perverso pregiudizio, mai decaduto, nei confronti della proprietà privata (altrui, ovviamente) e della classe media, colpita attraverso uno strumento fiscale spesso pensato come punitore morale piuttosto che come normale meccanismo di garanzia dei servizi pubblici.
È legittimo chiedersi quante responsabilità ricadano effettivamente su Matteo Renzi se il PD, nato di fatto a trazione diessina, col suo vecchio impero di apparati impiegatizi, sigle sindacali e cooperative, sta davvero naufragando. È legittimo chiedersi chi, tra Bersani e Renzi, ha più concretamente messo in discussione le strettoie del Meccanismo Europeo di Stabilità, cercando di conferire all’Italia quel peso internazionale che da molto tempo Bruxelles finge di non vedere. È legittimo chiedersi chi, tra le due fazioni litigiose, ci ha lasciato in eredità la disastrosa situazione finanziaria del Monte dei Paschi di Siena. È legittimo infine chiedersi, a livello locale, chi sia più “impresentabile”, ad esempio, tra un governatore regionale dalle parole magari fuori luogo che, fino a prova contraria, agisce concretamente per lo sviluppo e la sicurezza del territorio, ed un sindaco che si presenta scalzo e trasandato in ufficio, irridendo le Forze Armate e lasciando più volte la sua città senza acqua per diversi giorni.
Ora il PD potrebbe diventare qualcosa di completamente diverso da ciò a cui siamo stati abituati per anni. Se si tratterà di qualcosa di migliore, di peggiore o di inalterato, sarà il tempo a dircelo. L’auspicio è che, al di là degli interpreti, il riformismo, per troppo tempo soffocato in Italia, riesca a trovare finalmente il suo spazio in un Paese che ha estremamente bisogno di provvedimenti e misure urgenti, a partire dalla semplificazione burocratica, dall’occupazione giovanile, dalla riduzione del carico fiscale su imprese e famiglie, dalla modernizzazione infrastrutturale, dalla sicurezza e dalla riqualificazione dei quartieri e delle periferie disagiate.
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