Vertice Xi-Biden, il direttore Andrea Fais a CMG: Auspicio di chiarimenti e risultati fruttuosi

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A margine del Vertice APEC dal 15 al 17 novembre a San Francisco, si terrà un incontro di grande importanza tra Xi Jinping e Joe Biden, che attira l’attenzione del mondo intero. Ci si augura che possa portare a risultati fruttuosi e chiarire in modo definitivo le questioni ancora irrisolte tra i due Paesi. Questo, in estrema sintesi, il giudizio espresso da Andrea Fais, direttore responsabile di Scenari Internazionali, nella prima parte dell’intervista rilasciata a China Media Group e pubblicata in lingua italiana su Radio Cina Internazionale, di cui riportiamo il testo qui di seguito.


A cura della Redazione


Questa settimana si terrà un incontro significativo a San Francisco tra il capo di Stato cinese, Xi Jinping, e il presidente americano, Joe Biden. Quali sono le sue aspettative per le future relazioni tra la Cina e gli Usa?

Si tratta di un incontro molto importante e denso di aspettative, a margine del vertice APEC. È il primo di questo livello e di questo profilo da quando Joe Biden è in carica e, dopo la visita del ministro Wang Yi a Washington, si spera che possa produrre risultati fruttuosi e, soprattutto, chiarire in modo definitivo le questioni ancora irrisolte tra i due Paesi.

C’è bisogno di un’intesa chiara e vincolante per evitare che possano ripetersi situazioni di forte tensione come quelle registrate in passato nello Stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale. Sta infatti per cominciare l’ultimo anno dell’Amministrazione Biden e, nel caso di un nulla di fatto o di semplici dichiarazioni formali, esiste il concreto rischio che il prossimo inquilino della Casa Bianca possa tornare nuovamente a minare la stabilità delle relazioni bilaterali, con gravi ripercussioni per il resto del mondo.

Inutile girarci intorno: all’interno dell’establishment statunitense c’è un gruppo trasversale di “falchi” che vuole il disaccoppiamento tra le due economie (de-coupling) per poter preparare una guerra contro la Cina entro i prossimi dieci anni.

Per fortuna esistono anche politici, consiglieri ed esperti che sono di diverso avviso e che stanno cercando di spiegare l’imprescindibilità di una coesistenza pacifica tra le due più grandi economie mondiali. Tra questi c’è il decano Henry Kissinger che, all’età di cento anni, riesce ad essere molto più lucido di tanti suoi colleghi più giovani. Lo ha ripetuto lo scorso ottobre in occasione dell’annuale cena di gala del Comitato Nazionale per le Relazioni USA-Cina e speriamo che venga ascoltato ai piani alti.


In base alle sue aspettative, come si potrebbero stabilizzare le relazioni tra Cina e Usa?

Anzitutto, gli Stati Uniti dovrebbero rispettare pienamente e definitivamente il principio di ‘Una sola Cina’ e, più estesamente, l’intero contenuto della Risoluzione ONU 2758 (1971) e dei tre comunicati congiunti Cina-USA del 1972, 1978 e 1982.

Questo significa non soltanto limitarsi a non cercare di modificare unilateralmente lo status quo di Taiwan ma anche riconoscere nei fatti, e non solo de jure, che Taiwan è parte integrante della Repubblica Popolare Cinese ed interrompere per sempre la vendita di armi al governo locale, che va avanti da oltre quarant’anni malgrado l’impegno assunto in tal senso dall’Amministrazione Reagan. Mantenere questa linea di ambiguità strategica nel XXI secolo è del tutto anacronistico e non ha alcun senso nemmeno per la politica di sicurezza nazionale statunitense.

Ormai la Cina è un’economia di mercato avviata verso la piena maturazione, è la prima potenza commerciale al mondo, la prima per PIL a parità di potere d’acquisto (PPP) ed entro pochi anni lo sarà anche per PIL nominale. L’economia di Taiwan è già oggi profondamente integrata con quella della Cina continentale e nell’immediato futuro sarà sempre più chiaro che la riunificazione è un destino inevitabile.

Se la Coalizione Pan-Blu, guidata dal Kuomintang taiwanese, dovesse vincere le prossime elezioni generali di gennaio, come alcuni analisti sostengono, potrebbe ripartire il percorso di riavvicinamento voluto otto anni fa da Xi Jinping e Ma Ying-jeou, culminato nello storico incontro di Singapore: un percorso interrotto nel 2016 dall’affermazione del Partito Democratico Progressista e delle altre forze indipendentiste raccolte all’interno della Coalizione Pan-Verde.

Insomma, gli Stati Uniti dovrebbero lasciar lavorare le due sponde dello Stretto senza interferire, ma limitandosi ad osservare ed eventualmente consigliare dall’esterno. Questo sarebbe un passo cruciale per la stabilizzazione delle relazioni bilaterali, nella direzione di un incremento della fiducia e della comprensione reciproca, una base fondamentale per ripristinare appieno anche le relazioni commerciali, oggi molto complicate, ed individuare insieme le strade per consentire a Washington di riequilibrare gradualmente la bilancia commerciale attraverso le logiche del mercato e non della politica.

Il protezionismo “forte” voluto da Trump e confermato da Biden ha già prodotto conseguenze molto gravi ai danni degli stessi consumatori e delle stesse imprese statunitensi.

All’inizio di quest’anno gli economisti Tori Smith e Tom Lee dell’American Action Forum, think-tank di orientamento repubblicano, avevano concluso che il peso delle tariffe introdotte in forza della Sezione 301 (Trade Act, 1974) si è riversato sui consumatori statunitensi per un totale di 48 miliardi di dollari, di cui la metà a carico delle aziende che importano beni intermedi dalla Cina. Credo possa bastare per capire l’errore commesso.


Quali sono le implicazioni dell’evoluzione dei rapporti tra Pechino e Washington per i Paesi europei, ivi compresa l’Italia?

Significano praticamente tutto. Come la crisi ucraina ha plasticamente mostrato, l’Europa e l’Italia sono ancora fortemente dipendenti dalla dottrina strategica degli Stati Uniti.

Malgrado gli auspici del presidente francese Emmanuel Macron verso il raggiungimento di un’autonomia strategica europea, ricercata sin dalla Dichiarazione di Saint-Malo del 1998, Bruxelles non ha ancora adeguati strumenti per determinare una propria linea di politica estera separata da quella di Washington mentre i Paesi membri UE, presi singolarmente, sono troppo deboli per poter recitare un ruolo internazionale di rilievo paragonabile a quello di Stati Uniti, Cina, Russia ed India.

Se, dunque, i rapporti sino-statunitensi dovessero vivere una nuova fase di distensione e collaborazione, l’Europa, nel suo complesso, ne trarrebbe un indubbio beneficio a partire dalla possibilità di rafforzare le relazioni commerciali e gli investimenti nelle due direzioni. L’Italia, tuttavia, dovrebbe lavorare alacremente per recuperare, anche solo parzialmente, il ritardo accumulato sul mercato cinese rispetto a competitor quali Germania e Francia.


Oggi, la crescita economica mondiale, la pace e la sicurezza globale sono di fronte a una serie di sfide. Se fosse possibile, in quale maniera, secondo Lei, Cina e Stati Uniti potrebbero cooperare per affrontare queste sfide?

Fin’ora i leader occidentali, a partire da Biden, hanno sempre parlato di cooperazione nel campo del contrasto ai cambiamenti climatici. Direi che è troppo poco. Anche perché se Trump, notoriamente negazionista rispetto a tali temi, dovesse tornare al potere verrebbe meno anche questo terreno di dialogo.

D’altronde, uno dei maggiori problemi dell’Occidente odierno risiede proprio nella fortissima polarizzazione dell’opinione pubblica su qualsiasi tema: dall’immigrazione all’ambiente, dalla pandemia alla sicurezza, dal commercio al ruolo dell’ONU, dal cibo alle politiche di genere e così via. Ogni argomento viene affrontato dalle diverse parti politiche in modo fanatico, aggressivo ed acritico.

Manca un approccio fondato su dati certi e argomentazioni solide, come avviene anche in merito agli stessi cambiamenti climatici. Chiaro che l’azione antropica, da sola, non possa essere ritenuta responsabile di qualsiasi evento meteorologico estremo e che bloccare il traffico per protesta sia soltanto un modo per innervosire gli automobilisti.

Questo, però, non significa che il nostro stile di vita fortemente consumistico non abbia alcun impatto sull’ambiente e che sia inutile approntare interventi per migliorare la salubrità dell’aria, dei terreni e dell’acqua o per ridurre il rischio idrogeologico.

Da osservatore esterno, in Asia Orientale rilevo da anni un approccio molto più maturo e realista, basato essenzialmente sul paradigma del problem solving, pur nella diversità politica e culturale, a volte anche profonda, tra i vari Paesi della regione.

Non è un caso se lo sviluppo infrastrutturale – per definizione incentrato sulla concretezza – sta raggiungendo livelli molto alti in termini di dimensioni e qualità delle grandi opere, non solo in Cina o Giappone ma anche, ad esempio, a Singapore, in Corea del Sud, Indonesia, Malesia o Thailandia. Tante persone comuni in Occidente se ne stanno rendendo conto, semplicemente guardando sul web immagini di ponti, ferrovie, autostrade, aeroporti e nuovi mezzi di trasporto pubblico.

Mi ricollego alla domanda, partendo proprio da qui. La Cina, grazie al know-how acquisito in questi settori, può sicuramente contribuire a diffondere in tutto il mondo l’effetto moltiplicatore connaturato agli investimenti infrastrutturali, che non a caso costituiscono la spina dorsale dell’Iniziativa Belt and Road (BRI).

I Paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina hanno estremo bisogno di infrastrutture che possano garantire efficienza e continuità nell’approvvigionamento energetico e nella fornitura dei beni necessari. Piaccia o meno, oggi la Cina è l’unica potenza davvero rispettata e ritenuta credibile dalla gran parte delle leadership del cosiddetto Sud Globale.

Anziché indignarci di questo dovremmo invece esserne soddisfatti, anche nell’ottica della risoluzione pacifica dei conflitti e di una naturale riduzione dei flussi migratori verso il Mediterraneo e verso il confine Stati Uniti – Messico. Flussi che, in assenza di stabilità politica e di investimenti in capitale fisso nei contesti più arretrati, sono destinati ad aumentare esponenzialmente.

Quando le future classi dirigenti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea comprenderanno appieno il potenziale della cooperazione con la Cina in molti settori – non solo nelle due direzioni ma anche nei Paesi terzi – sarà tutto più chiaro.

Ancora siamo nella fase di transizione verso un assetto mondiale multipolare: le resistenze politiche e culturali restano marcate per effetto dei residui psicologici della Guerra Fredda. Confido che un giorno, non troppo lontano, questi ostacoli cadranno e le cose cambieranno profondamente.




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