Gli Stati Uniti riprendono contatto con la realtà, ora l’obiettivo è un accordo paritario con la Cina

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Lo scorso fine settimana, le delegazioni di Cina e Stati Uniti si sono incontrate a Ginevra per due giorni di colloqui sulle relazioni commerciali, pesantemente compromesse dai dazi adottati dall’Amministrazione Trump, soprattutto a partire dal 2 aprile scorso. Il vertice era molto atteso dagli osservatori e dai mercati internazionali dopo almeno un mese e mezzo di toni duri e minacce, cui Pechino aveva prontamente risposto con ulteriori ritorsivi. A seguito dell’annuncio di lunedì mattina, da oggi le barriere tariffarie reciproche scendono temporaneamente dal 125% al 10%, anche se nel caso dei beni cinesi importati dagli Stati Uniti il dazio complessivo risale al 30%, considerando il 20% approvato a febbraio per il caso legato ai precursori del fentanyl. Per il resto, Washington compie così un’inversione a U e torna sui suoi passi. Ora le parti davranno a disposizione novanta giorni per negoziare un accordo strutturato e definitivo, che scongiurerebbe una possibile guerra commerciale dalle conseguenze devastanti sull’intera economia globale. A questo riguardo, il direttore responsabile Andrea Fais è intervenuto sulle “colonne” di China Radio International (CGTN) per la rubrica “In altre parole”. Proponiamo qui di seguito la versione integrale dell’articolo.


di Andrea Fais
[Direttore responsabile di Scenari Internazionali]



Durante lo scorso fine settimana, la città svizzera di Ginevra ha accolto le delegazioni governative di Cina e Stati Uniti per un vertice bilaterale di alto livello in materia economica e commerciale. Dopo due giorni di intense consultazioni, nella mattinata di lunedì 12 maggio, le due parti hanno emesso una dichiarazione congiunta per sancire una netta riduzione temporanea dei dazi reciproci di ben 115 punti percentuali, abbassando cioè la quota dal 125% al 10% sulle rispettive importazioni.

Le nuove disposizioni sono entrate in vigore alle 12:01 del 14 maggio ed avranno una durata di novanta giorni. Da qui al 12 agosto prossimo, quindi, le prime due economie mondiali dovranno lavorare ad un accordo definitivo per limare le divergenze e le incomprensioni, sanare i motivi di contrasto ed infine rimodulare le loro relazioni commerciali sulla base delle esigenze dell’una e dell’altra.

Resta per il momento in vigore sui prodotti cinesi un dazio aggiuntivo del 20%, già adottato a febbraio dall’Amministrazione Trump col pretesto di esercitare pressioni in materia di controllo sul commercio dei precursori del fentanyl, il farmaco divenuto tristemente noto negli Stati Uniti per il suo abuso quale sostanza stupefacente, sebbene i decisori politici del gigante asiatico abbiano più volte ribadito la loro totale estraneità alla diffusione impropria del prodotto in quel Paese. Complessivamente, la barriera tariffaria sarà dunque del 10% per i beni statunitensi importati dalla Cina e del 30% per quelli cinesi importati dagli Stati Uniti.

L’accordo di Ginevra ha comunque annullato tutti i dazi adottati dalla Casa Bianca contro la Cina a partire dal 2 aprile e i conseguenti contro-dazi applicati in risposta da Pechino. Sia il capo della delegazione cinese, il vice primo ministro He Lifeng, che i capi della delegazione statunitense, il segretario al Tesoro Scott Bessent e il rappresentante al Commercio Jamieson Greer, si sono detti soddisfatti del consenso raggiunto.

Si tratta di un risultato provvisorio, propedeutico ad una nuova fase di negoziati, ma tanto è bastato ai mercati finanziari per ritrovare la serenità compromessa dopo il cosiddetto “Liberation Day”, quando il presidente statunitense Donald Trump aveva mostrato al mondo la sua tabella, elencando valori numerici ottenuti attraverso un calcolo privo di significato economico. In particolare, i principali indici delle borse americane hanno subito reagito positivamente alla notizia: lunedì sera, il Dow Jones ha chiuso in rialzo del 2,81%, lo Standard & Poor’s 500 del 3,26% e il Nasdaq del 4,35%.

Anche sul fronte dell’economia reale, almeno in termini di stime, questa importante tregua commerciale ha immediatamente rasserenato il clima generale. Secondo quanto riporta Reuters, Goldman Sachs ha già abbassatole sue previsioni di recessione negli Stati Uniti dal 45% al 35%, J.P. Morgan ha posto la probabilità di rischio sotto il 50% mentre Barclays lo ha addirittura rimosso.

Se negli ultimi due mesi gli Stati Uniti non hanno mai nascosto la volontà di avviare dei colloqui, l’atteggiamento aggressivo della Casa Bianca aveva sempre trovato la ferma reazione di Pechino. “Pressioni, minacce e ricatti non sono i giusti modi per trattare con la Cina”, aveva affermato in conferenza stampa il portavoce del Ministero degli Esteri Lin Jian lo scorso 8 aprile, aggiungendo che il colosso asiatico sarebbe stato pronto a “combattere fino alla fine” se Washington non avesse cambiato direzione.

In definitiva, malgrado i toni trionfalistici di Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, è stata proprio l’Amministrazione Trump a cedere, cancellando tutto quello che aveva approvato nell’ultimo mese e mezzo. Già l’11 aprile, l’Ufficio delle Dogane e della Polizia di Frontiera degli Stati Uniti aveva compiuto una prima parziale retromarcia esentando dai dazi alcune categorie di prodotti tecnologici, come computer, smartphone, semiconduttori, pannelli solari, monitor TV a schermo piatto ed altri ancora. Con la decisione di Ginevra, l’inversione a U americana è completa.

Sebbene i contatti tra le parti fossero presumibilmente ripresi già da qualche tempo, la pubblicazione, venerdì scorso, dei dati relativi al mese di aprile ha mostrato come il commercio estero cinese non sia stato minimamente scalfito dai provvedimenti statunitensi. Nello stesso periodo in cui erano in vigore le maxi-tariffe, il valore complessivo dell’interscambio della Cina con il resto del mondo è infatti cresciuto del 5,6% su base annua per un ammontare di 3.840 miliardi di yuan, pari a 531,46 miliardi di dollari. Il trend è stato trainato proprio dalle esportazioni, aumentate ad un ritmo ben più elevato (+9,3%) rispetto alle importazioni (+0,8%).

Secondo quanto dichiarato al Global Times da Zhou Mi, ricercatore senior presso l’Accademia Cinese per il Commercio Internazionale e la Cooperazione Economica, i numeri riflettono gli “sforzi proattivi della Cina per espandere i partenariati commerciali internazionali, ottimizzare le relazioni commerciali e impegnarsi attivamente nell’integrazione delle catene di fornitura globali”. In altre parole, ciò significa che la manifattura cinese è di fatto insostituibile e rappresenta un fattore imprescindibile per la stabilità delle catene industriali globali, con tutte le ripercussioni politiche che questa condizione comporta.

I negoziati sino-statunitensi, per essere davvero efficaci, dovrebbero ripartire non tanto dalla situazione del marzo scorso, ma addirittura dal 2017, prima che lo stesso Donald Trump, durante il suo primo mandato, desse il via alla guerra commerciale contro la Cina, poi proseguita e addirittura inasprita dal suo successore, Joe Biden, coinvolgendo soprattutto il comparto tecnologico.

Dietro il frasario protezionista e gli appelli alla “deglobalizzazione” diffusi negli ultimi dieci anni non è difficile scorgere l’attività di gruppi di impronta neoconservatrice, trasversali ai due principali partiti statunitensi, che perseguono dichiaratamente l’obiettivo di distruggere la Cina, anche a costo di sconvolgere l’economia globale, per eliminare l’unico vero competitor che possa attualmente mettere in discussione l’eccezionalismo americano e le sue pretese egemoniche.

Sarà perciò fondamentale che chi negli Stati Uniti vuole effettivamente ridurre il deficit commerciale e riequilibrare l’interscambio a beneficio dei propri produttori, metta all’angolo i rappresentanti di quel pericoloso orientamento e realizzi definitivamente che le divergenze possono essere risolte esclusivamente attraverso un dialogo paritario capace di dare forma e sostanza ad una piattaforma condivisa, anche sfruttando le nuove opportunità offerte dal mercato cinese, per altro già colte da diversi imprenditori statunitensi in vari settori.

Un ragionamento analogo, sebbene su termini molto diversi, vale per l’Unione Europea. La rinnovata tensione tra le due sponde dell’Atlantico, non solo per i dazi adottati dalla Casa Bianca ma anche per le diverse visioni sulla soluzione del conflitto russo-ucraino, potrebbe riavvicinare Bruxelles e Pechino, che proprio una settimana fa hanno celebrato i cinquant’anni di relazioni diplomatiche. Tuttavia, la Commissione UE e le principali cancellerie europee non potranno esimersi da un serio processo di revisione delle politiche di de-risking, sin qui totalmente inefficaci, approvate due anni fa, e di riconfigurazione della dottrina di politica estera, rinunciando ad ingerenze ed interferenze negli affari interni della Cina.




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