Uno sguardo sul mondo: dal Festival di Trento spunti interessanti per capire il futuro dell’Europa

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Domenica scorsa è calato il sipario sulla ventesima edizione del Festival dell’Economia di Trento, tradizionale appuntamento di forte richiamo nel nostro Paese, quest’anno ulteriormente arricchito per l’importante anniversario. Scenari Internazionali, presente tra i media accreditati all’evento, ha cercato di sondare gli umori e le idee che circolano tra esperti, analisti ed accademici per saperne di più sul futuro a tutto tondo dell’Italia e dell’Europa.


A cura della Redazione


TRENTO – Dal 22 al 25 maggio scorsi, Trento ha ospitato la ventesima edizione del Festival dell’Economia, trasformandosi in un vivace laboratorio di dibattito. Con più di 40.000 presenze, circa 330 eventi ed oltre 650 relatori – tra cui 6 Premi Nobel e 16 ministri – il Festival ha intrecciato economia, politica, giustizia sociale e transizione ecologica, ponendo al centro quesiti cruciali.

‘Rischi e scelte fatali. L’Europa al bivio’ non è stato soltanto il tema portante della kermesse, ma un monito lucido rivolto a cittadini, studiosi, politici, imprenditori e giornalisti: siamo ancora in tempo per scegliere la strada giusta? E, soprattutto, qual è questa strada?

Tra le vie affollate del centro storico e le sale colme di cittadini attivi e curiosi, gli scenari globali sono stati al centro della scena. In un contesto internazionale segnato da guerre, crisi ambientali ed instabilità, il Festival ha offerto uno spazio di confronto molto ampio su un’Europa fragile e divisa, costretta a decidere se restare fedele ai suoi valori fondanti o cedere al calcolo geopolitico. Dalla guerra in Ucraina al conflitto in corso a Gaza, dalla sfida climatica alla competizione tra Stati Uniti e Cina, ogni panel ha contribuito ad esplorare non solo scenari economici e strategici, ma anche dilemmi morali e identitari.

Parlare di “scelte fatali” oggi significa interrogarsi sul prezzo dell’inerzia, sulla selettività dell’indignazione e sul ruolo che l’Europa intende davvero giocare nel mondo. Il vero bivio che ci troviamo di fronte non è quindi solo tra crescita o declino, ma anche tra civiltà o disumanità. E il Festival ha saputo dare voce a queste domande profonde, spesso senza risposte immediate, ma cercando di scuotere le coscienze. Ogni panel è diventato uno specchio delle sfide del nostro tempo, offrendo sguardi diversi su un’Europa chiamata a decidere, con urgenza, quale futuro vuole costruire.

‘Il futuro di Gaza’, discusso da Gad Lerner, Mohammed Abu Mughaisib (MSF) e Ugo Tramballi, ha rappresentato uno dei momenti più intensi e dolorosi della quattro-giorni. Attraverso la voce di chi opera quotidianamente sul campo è emersa la realtà straziante di una popolazione stremata da mesi di bombardamenti, con un sistema sanitario al collasso e migliaia di vittime civili. Uno scenario che, comunque la si pensi, non può essere giustificato dai pur legittimi obiettivi di liberare gli ostaggi ancora in mano a Hamas e di sconfiggere il terrorismo.

Questo dramma si inserisce nella cornice più ampia tracciata dal panel ‘Il futuro del Medio Oriente’, dove si è discusso non solo di Gaza, ma della pericolosa instabilità regionale e delle ambiguità delle grandi potenze. Come evidenziato da Paolo Magri, l’approccio degli Stati Uniti nella regione – tra disimpegno selettivo e strette alleanze strategiche – ha spesso aggravato le crisi esistenti, lasciando spazio a nuove faglie geopolitiche.

Valeria Talbot ha evocato la doppia morale occidentale, mentre Pejman Abdolmohammadi ha messo in guardia da una nuova competizione regionale che va ben oltre il conflitto israelo-palestinese ed in base alla quale l’interesse economico e il controllo logistico contano più della vita delle persone. In entrambi i panel, Gaza è apparsa non come un’eccezione, ma come un simbolo estremo di un ordine mondiale spezzato, in cui i diritti umani valgono solo se compatibili con gli interessi geopolitici.

È un dato di fatto che garantire la sicurezza delle catene di approvvigionamento resta cruciale per preservare il benessere e la stabilità nei Paesi avanzati, spesso importatori netti di materie prime, ma anche la crescita e l’occupazione nei Paesi in via di sviluppo, spesso forti esportatori (non solo di materie prime). In questo senso, al di là delle narrazioni revisioniste, la globalizzazione si conferma centrale per assicurare un certo livello di interconnessione tra economie nazionali, anche come antidoto alle guerre, militari o commerciali che siano. La sfida è semmai quella di armonizzare gli interessi geopolitici e geoeconomici con quei diritti sociali ed individuali di cui l’Europa si è per decenni fatta promotrice.

Non a caso, il ritorno del gas è stato uno dei temi centrali sul fronte energetico. Come emerso nel panel dedicato, l’oro blu continua a rappresentare una risorsa-chiave per il sistema italiano, non solo come fonte primaria ma anche come vettore strategico di stabilità e flessibilità. Non si tratta di ideologia, ma di autonomia e sicurezza, ha spiegato Emanuela Trentin, sottolineando come oggi il gas garantisca quella continuità che le rinnovabili, da sole, non riescono ancora ad offrire. L’Italia ha puntato su un mix variegato: rigassificatori a nord, gasdotti da Azerbaigian, Algeria e Libia da sud, diventando così, secondo gli esperti, il Paese più diversificato d’Europa, ma anche uno dei più dipendenti dalle forniture esterne.

La strategia è chiara: non eliminare il gas, ma ridurre il fabbisogno attraverso efficienza energetica, elettrificazione e investimenti in fonti alternative. Tra le soluzioni in campo: biometano compatibile con le infrastrutture esistenti, carbon capture and storage (CCS) con possibili siti di stoccaggio nell’Adriatico e idrogeno verde importato dal Nord Africa. Ma tutto questo – è stato ribadito – richiede regole chiare, visione a lungo termine e il coinvolgimento del settore finanziario, che ancora fatica a investire in progetti con alti rischi regolatori. In sintesi: il gas non sparirà dal mix energetico italiano, almeno nel medio periodo. L’obiettivo non è cancellarlo ma usarlo meglio, e meno, per garantire transizione, competitività e sicurezza.

Nel tempo in cui le guerre si combattono anche con i dati e non solo con le armi, il Festival dell’Economia ha dedicato grande spazio al legame tra tecnologia, sicurezza e sovranità. Dal panel sulla geopolitica dell’intelligenza artificiale, con Stefano Mannino e Sara Tonelli, è emerso come certi strumenti siano già utilizzati per manipolare l’opinione pubblica in contesti sensibili. L’Europa, fragile su questo fronte, è chiamata a rispondere rafforzando le sue capacità difensive digitali, senza sacrificare i diritti fondamentali.

A questa nuova dimensione di conflitto si collega anche il dominio crescente delle Big Tech, analizzato da Gian Maria Gros-Pietro, Michele Boldrin, Paolo Boccardelli e Alberto Sangiovanni Vincentelli. Le grandi piattaforme statunitensi e cinesi controllano oggi infrastrutture essenziali – cloud, intelligenza artificiale e dati – mentre l’Europa, priva di campioni digitali, resta ai margini. La domanda è cruciale: può una democrazia sopravvivere senza autonomia tecnologica? E senza una regolamentazione intelligente, è ancora possibile difendere libertà, pluralismo e trasparenza?

Il tema della sovranità – industriale, strategica ed energetica – è tornato con forza anche nel panel su politica industriale e sicurezza economica, dove Cinzia Alcidi (CEPS) ha sottolineato quanto l’Europa sia ancora dipendente dall’estero per microchip, terre rare e gas. Il piano SAFE da 150 miliardi di euro punta a rafforzare l’industria della difesa europea, ma senza un mercato unico del settore e con politiche industriali ancora frammentate tra Stati membri, il rischio è di non andare molto oltre i proclami.

La sicurezza economica oggi non riguarda solo la difesa, ma la capacità di garantire gli approvvigionamenti, proteggere le filiere e reagire agli shock. Se competitività e sicurezza devono marciare insieme, l’Europa ha bisogno di strategie condivise, investimenti coordinati e scelte coraggiose. Perché nel bivio evocato dal leit-motiv di questa edizione del Festival, il rischio non è solo quello di arretrare economicamente ma anche di perdere rilevanza, autonomia e giustizia sociale.




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