È in fase di pubblicazione Un altro mondo è possibile?, il nuovo numero di Scenari Internazionali dedicato alla sostenibilità e alla transizione ecologica. Il tema, pur ampiamente dibattuto, sembra ancora poco comprensibile all’opinione pubblica. Con questa uscita cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, evidenziando potenzialità e limiti di alcuni casi-Paese e approfondendo tre settori imporantissimi per la nostra economia nazionale.
A cura della Redazione
Un altro mondo è possibile. Così recitava lo slogan coniato dalla vasta galassia dei movimenti no-global/new-global emersi tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. L’ostilità di milioni di giovani e meno giovani per la globalizzazione, ritenuta iniqua o addirittura predatoria, prese forma attorno a Seattle (1999) e Genova (2001), teatro di violente proteste rispettivamente contro il vertice del WTO e quello del G8.
Cos’è rimasto di quei movimenti di protesta? Praticamente niente. Anzi, le ferite lasciate dalla crisi di Wall Street e del debito sovrano in UE hanno aumentato il divario reddituale tra centro e periferia, tra metropoli e provincia, portando consistenti fette della classe media occidentale, e dunque parte delle forze politiche di destra, storicamente vicine a quei ceti, a spostarsi su posizioni sovraniste contrapposte alle principali dinamiche della globalizzazione, al contrario ritenute irreversibili a sinistra, con pochissime eccezioni.
Inversione dei poli? Non esattamente. Le delocalizzazioni produttive, il trasferimento tecnologico e i flussi di capitali tra le economie avanzate e le regioni in via di sviluppo hanno incrementato esponenzialmente le relazioni industriali, commerciali, finanziarie e logistiche su scala globale, con due conseguenze principali: l’interdipendenza tra le diverse aree del pianeta e l’ascesa di una nuova classe media nei Paesi emergenti.
Ai timori delle leadership occidentali per la perdita del loro primato geopolitico si è così sommato il problema, di ben più ampia portata, della sostenibilità in un pianeta dove la mappatura geografica della povertà si è oggettivamente ridotta e l’accesso ai consumi è ormai esteso ad una platea di persone molto più vasta rispetto a trenta o quarant’anni fa.
Il caso cinese è emblematico. Secondo un rapporto del Rhodium Group del maggio scorso, le emissioni nocive prodotte dal gigante asiatico sono più che triplicate nel corso degli ultimi trent’anni, sino a raggiungere un valore pari al 27% del totale mondiale. Seguono Stati Uniti (11%), India (6,6%), UE (6,4%), Indonesia (3,4%), Russia (3,1%), Brasile (2,8%) e Giappone (2,2%).
Per avere un quadro più completo della situazione è tuttavia necessario rapportare i valori delle emissioni alla popolazione di ciascuno Stato e alla distribuzione storica sull’intero Antropocene. Secondo questa chiave di lettura, i Paesi occidentali mantengono tutt’ora una grossa fetta di responsabilità, senza contare che nel corso degli ultimi quarant’anni i mercati emergenti asiatici sono stati praticamente “invasi” dall’offshoring di migliaia di aziende provenienti dalle nazioni sviluppate.
La transizione ecologica richiederà ancora tempo, soldi, innovazione e ricerca. Non è un caso che i primi tre Paesi al mondo per volume di emissioni rilasciate – Cina, Stati Uniti ed India – sono anche tra i primi cinque produttori di energia da fonti pulite.
Ci sono poi una serie di abitudini, radicate in particolare nel mondo occidentale, che è impossibile stravolgere perché non soltanto lederebbe i diritti del consumatore ma cancellerebbe anche decine di milioni di posti di lavoro ancor prima di poter formare il personale in esubero verso nuove mansioni o altri settori.
Con questa uscita, Scenari Internazionali esamina alcuni casi nazionali di transizione ecologica particolarmente interessanti, in cinque aree strategiche del pianeta: Europa (Italia), Nord America (Stati Uniti e Canada), Eurasia (Russia), Asia Orientale (Corea del Sud) e Medio Oriente (Qatar). Propone poi un focus sui cambiamenti sostenibili in atto nell’agricoltura, nel turismo e nella moda, per concludere il numero con un’intervista a Rodolfo Errore, presidente di SACE (Gruppo CDP).
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